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martedì 6 maggio 2014

Lacrime Petrolifere


Nel video una interessante esposizione di  Steven Kopits, Managing Director della Douglas-Westwood, una società di analisi energetiche con focus principale sul mercato del petrolio.
L'aggettivo "interessante" è da intendersi relativamente a quello che può provenire da chi opera su questi mercati. L'analisi è completamente di taglio economicista, nessun accenno agli impatti ambientali del petrolio, al rischio climatico. Ad una domanda del pubblico sul petrolio da sabbie bituminosi (tar sand) del Canada, Kopits precisa che lì c'è un problema. Meno male, pensavo, adesso citerà la crescente opposizione alla devastazione della foresta boreale, il caso KXL, etc. No, il problema è che "il petrolio da tar sand costa molto". Questo per inquadrare il tipo di prospettiva. Comunque un contributo degno di nota, perché almeno ad esporre è un esponente del settore petrolifero che ha una sua intelligenza. Non è uno sciocco apologeta come ne abbiamo tanti in Italia.

Quindi, cosa dice di interessante Kopits? 
Kopits spiega, ripeto, da una prospettiva completamente economicista, le diverse delusioni che il petrolio ha dato nell'ultima decade.
Le sue analisi si basano su un modello previsionale basato sull'assunto che siamo in una fase in cui è l'offerta di petrolio che determina la domanda, ma con un importante vincolo di prezzo massimo lato domanda. Nella sua visione la difficoltà dell'offerta  di soddisfare la domanda ha indotto la depressione economica. Questa è una spiegazione un po' semplicistica, secondo il mio modesto parere, perché ignora altri fattori strutturali lato risorse (anche altre input primari hanno registrato un balzo dei prezzi), lato ambiente (cominciamo ad avere un feedback negativo dell'inquinamento, i costi indiretti), lato iniquità sociale (l'1% accaparra troppo), etc (caos euro). Ma pur nella sua semplificazione, stabilire un nesso petrolio-recessione è già un passo avanti notevole rispetto al mainstream.
Tutto qui? No c'è dell'altro. Siamo di fronte a delle dinamiche il cui disvelamento produrrà cambi di rotta significativi.
Il dato nuovo è l'ammissione che, sostanzialmente, siamo entrati in una fase post-petrolio-facile. Combustibili liquidi per autotrazione d'origine fossile siamo e saremo sempre in grado di produrne. Ma i dati ci descrivono quello che in pochi prevedevano. Portare in linea questa  offerta richiede   investimenti giganteschi (e fin qui lo si sapeva). Ma, esperienza del decennio passato, il mercato non assorbe offerta oltre la soglia dei 100 dollari al barile. Molte compagnie petrolifere hanno sovrainvestito sperando in aumenti del prezzo che non si sono verificati. Da qui la prima delusione (poveri petrolieri!). Nel frattempo l'economia è depressa, incapace di girare a pieno regime con il freno rappresentato dai 100$/bbl.
Le compagnie petrolifere si trovano adesso in una crisi di redditività. Una notizia di cui non ero a conoscenza: Shell ha dovuto accedere a prestiti per pagare i dividendi, non è un buon segno!
Quindi, in una prospettiva puramente economicistica abbiamo questa doppia delusione: 1) economia stagnante, 2) petrolieri in lacrime.

Fin qui l'analisi di Kopits, che, ripeto, non è male dato il paradigma di riferimento. Di seguito le mie considerazioni.
Allargando l'analisi, le delusioni del petrolio sono ormai innumerevoli.
Era prevedibile che il modello trasportistico dominante (basato sull'automobile con l'inefficiente motore a combustione interna, per di più con elevate distanze casa-lavoro per via del debordare dei centri urbani) non sarebbe riuscito a scalare nel caso di industrializzazione dell'Asia. I coriferi del "mercato-che-tutto-risolve" ci hanno fatto perdere decenni. Le difficoltà ad espandere l'offerta sono state gigantesche, in pratica non ci si è riusciti, ed in più abbiamo una questione clima che richiede  drastici cambi di rotta.
Nell'ultima decade l'establishment ha fatto finta di niente di fronte alla doppia crisi risorse-ambiente, confidando nella cornucopia della nuova offerta che avrebbe risolto tutto senza dover cambiare niente. Si è illusa l'opinione pubblica che nuove tecniche estrattive (tar sand, shale oil, trivelle in ogni dove, dall'Artico al Mediterraneo) avrebbero salvato il modello auto-suburbia-vacanze-tropicali-in-aereo. Nell'attesa occorreva stringere la cinghia con l'austerity, ma era una fase transitoria. Ma il transitorio non passa, anzi si aggrava. 
Abbiamo quindi le seguenti delusioni:
  1. L'economia è depressa perché non regge gli alti prezzi degli input primari.
  2. Le stesse compagnie petrolifere più impegnate nel portare in linea la nuova costosa offerta hanno pessima redditività;
  3. Il petrolio facile esiste ancora, ma è confinato in aree geopolitiche difficili (le petro-dittature sono le uniche che godono dei prezzi a 100$/bbl, ma questa rendita è ulteriormente distorsiva degli equilibri mondiali (Russia, Iran, Libia, etc));
  4. Dover trivellare in ogni dove fa crescere l'opposizione (e i costi). Quando il petrolio veniva prevalentemente da aree desertiche (lontano dagli occhi, lontano dal cuore) erano in pochi ad informarsi dei disastri di questa fonte. Adesso che le estrazioni sono a più alto impatto (tar sand, shale oil, deepwater), e più vicine ai luoghi del cuore (foresta boreale, mediterraneo, golfo del Messico, artico, etc) la coscienza della dissonanza di questo modello di sviluppo si estende.
  5. Le megalopoli asiatiche scoprono che il cielo devono limitarsi a vederlo sui megaschermi.
  6. Ultimo, ma sicuramente il fattore più importante: il cambiamento climatico che richiede una sostanziale uscita dall'era del petrolio;
Clima impazzito, città dall'aria irrespirabile, trivelle vicino casa, petro-dittature sempre più minacciose,  e per giunta disoccupazione e stagnazione. Tutto questo non bastava, adesso sappiamo che anche i petrolieri se la passano male!
Quale sarà la goccia che farà trabboccare il vaso?

Quale leadership avrà il coraggio di resettare il petrolio e i suoi fallimentari modelli di consumo?






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